Eliminare la sofferenza diminuisce la felicità

Valter Psicofelicità
4 min readAug 9, 2019

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Oggi voglio fare qualche riflessione sul rapporto tra felicità e sofferenza.
Per “sofferenza” intendo — in senso ampio — qualsiasi sensazione spiacevole: fatica, sforzo, dolore fisico, delusione, desideri insoddisfatti, mancanza, vuoto… Mentre con “felicità” intendo uno stato positivo, una sensazione di benessere.

Felicità e sofferenza viaggiano spesso insieme

Alcuni pensano che felicità e sofferenza siano mutualmente esclusivi, ovvero che la presenza di uno corrisponda all’assenza dell’altro. In altre parole, credono che basterebbe eliminare qualsiasi motivo di sofferenza dalle loro vite, per essere felici.
In realtà, i due termini sono relativamente indipendenti, e possono coesistere. Un maratoneta che giunge al traguardo tra i primi, sarà al tempo stesso sia esausto e dolorante, che orgoglioso del suo piazzamento; la madre che la sera rimbocca le coperte al figlio che le sorride, sente pesare le fatiche e le difficoltà della giornata, ma sente ugualmente il cuore colmo d’amore e soddisfazione.
Volere ridurre al minimo le cause di sofferenza è umano, ma non è — in sè — una via che produce felicità; anzi, potrebbe anche portare all’effetto contrario!

Le due strade

Come osservò già Freud, gli esseri umani agiscono seguendo due impulsi primari: ricerca del piacere, e fuga dal dolore (è il “principio del piacere” — questa attitudine istintiva ha una controparte nel “principio di realtà”, per cui l’individuo impara a posporre il piacere ed accettare la sofferenza, in vista di una necessità od obiettivo più elevato).
I due impulsi hanno peso diverso nei vari individui; alcuni danno più importanza alla ricerca del piacere, per altri è fondamentale minimizzare le sofferenze. Se la ricerca continua del piacere può comportare alcuni ovvi rischi e controindicazioni, la “fuga dal dolore” ha un lato oscuro che è meno evidente.
Chi teme molto la sofferenza vive sulla difensiva, ha un’attitudine pessimista e ansiosa; pensa sovente al peggio nella speranza di evitarlo, ma questo può portare proprio al risultato opposto, cioè a creare quel che si teme! (vedi post sulla profezia che si autoavvera). Vive insomma in uno stato di chiusura: limita le sue azioni, aspettative e percezioni (e spesso persino il suo respiro), per tenere lontano — e fuori da sè — quel che potrebbe ferirlo.
Se questa persona non ha particolari ambizioni, il suo comportamento può sembrare ragionevole e funzionale. Bisogna però considerare due fattori fondamentali, e spesso ignorati:

  • Un certo grado di sofferenza è inevitabile.
  • Chiudere fuori il dolore elimina anche il piacere.

Non si può eliminare la sofferenza

Non del tutto, almeno. Come ci ricorda il Buddhismo, ci sono almeno due ragioni per cui la sofferenza è inevitabile:

  • Alcuni nostri desideri non verranno soddisfatti.
  • Tutto è impermanente (cambia e finisce), perciò patiremo la perdita.

Anche la persona più ricca e potente del mondo, non potrà mai esaudire ogni suo desiderio: ci sarà sempre qualcosa al di là della sua portata. L’essere umano è una “macchina dei desideri”, che vuole sempre più di quello che ha. Questa ambizione inesauribile ha un potere creativo (ci induce ad evolverci), ma ci condanna anche a non essere appagati a lungo. Desiderare meno attenua questa sofferenza, ma è impossibile non desiderare nulla. Inoltre, il desiderio ci fa sentire vivi; ci spinge verso la vita e la realizzazione: senza desideri, siamo come morti (è questo lo stato del depresso).
Poiché tutto è in costante cambiamento, sperimenteremo la perdita di quello a cui teniamo: gli oggetti si logorano e guastano, le relazioni si modificano o terminano, idee e valori mutano, le persone muoiono. Possiamo evitare di attaccarci a cose e persone, ma mai del tutto.

Ne consegue che, per quanto possiamo sforzarci, una certa parte di sofferenza resterà comunque nella nostra vita. E’ questo il significato della massima buddhista “La vita è sofferenza”: non nel senso che è solo quella, ma nel senso che ne è parte inevitabile.
Anche il semplice esistere comporta un certo “peso” inevitabile: sopravvivere, alimentarsi, soddisfare i propri bisogni essenziali, sono attività necessarie che comportano impegno e fatica.
Per questo lo sforzo di chi evita la sofferenza a tutti i costi è — almeno in parte — destinato a fallire.

Chiudersi lascia fuori tutto quanto

Chi teme la sofferenza, o chi ha vissuto molte esperienze negative, sviluppa la tendenza a chiudersi: rischia meno, non osa, investe meno nelle relazioni, si tiene dentro quel che sente, non prova cose nuove, si fissa su abitudini e routine poco impegnative.
La tendenza alla chiusura si manifesta anche a livello fisico: una postura contratta (problemi a collo, spalle, spina dorsale), una minore percezione sensoriale, un respiro superficiale (il respiro profondo ci fa sentire più intensamente).
Insomma, questa persona tende a crearsi un “guscio” protettivo che la difenda. Il problema è che lo stesso guscio la isola dal mondo, dalla vita, dalle opportunità. Meno si “investe” nella vita (rischiando, aprendosi e sperimentando), meno se ne ottiene in ritorno. Per questo, maggiore è la chiusura, minori diventano il piacere, la gioia, la felicità, l’amore.
E’ un po’ come vivere in una caverna: minacce e pericoli restano fuori, ma con loro anche l’aria fresca e la luce.

In pratica, chi privilegia la “fuga dal dolore” finisce sì col diminuire la sofferenza (ma non completamente), ma riduce al minimo (o a zero) anche il piacere e la felicità.
Si ritrova quindi con una vita che in cui rimane solo sofferenza (anche se ridotta). Paradossalmente, proprio quello che cercava di evitare!
Tra l’altro, è una delle strade per cui si arriva alla depressione: chiudendosi sempre più si finisce col non sentire più niente, col trovarsi in uno stato di “vuoto cosmico” in cui nulla ha più senso o valore.

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Written by Valter Psicofelicità

Mi occupo di crescita personale da 40 anni. Nel mio blog parlo di migliorare se stessi, la propria vita e le relazioni, per vivere meglio ed essere più felici.

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