Avere più soldi può renderti infelice?
Una convinzione molto diffusa, è che la felicità cresce di pari passo con la ricchezza. Ma le convinzioni sono spesso ingannevoli, ed anche questa sembra esserlo.
Per esempio, alcune ricerche hanno dimostrato che, una volta raggiunto un certo livello di reddito (che soddisfi le esigenze base), ulteriori aumenti non influiscono significativamente sul livello di benessere o felicità. Lo studio di cui parlo in questo articolo, mostra come l’incremento della ricchezza possa portare ad una maggiore infelicità, sia a un livello personale che sociale.
L’aumento della ricchezza
può portare
maggiore infelicità
Più ricchezza, meno sostanza
Questo studio degli economisti Eaton ed Eswaran, illustra questa ipotesi: man mano che una nazione aumenta la sua ricchezza (oltre uno standard ragionevole), i consumi si spostano verso status symbol privi di valore intrinseco (auto lussuose, abiti firmati, gioielli…). Il loro possesso non fornisce una soddisfazione per se, ma solo in quanto permette di sentirsi “migliori” degli altri.
Tra le conclusioni degli autori:
- Il paradosso delle società sviluppate: ”Nel corso del tempo, diventiamo più ricchi, ma non diventiamo più felici”.
- La possibilità che il consumo di risorse e i danni all’ambiente, non producano reali benefici per la società.
- Il dubbio che l’enfasi sulla crescita economica (da parte della società e degli economisti) possa essere gravemente illusoria.
Diventiamo più ricchi,
ma non diventiamo più felici
L’importanza dell’apparire
Questo studio è basato sul lavoro di un altro economista, Thorstein Veblen, che nel 1899 scrisse il libro ”La teoria della classe agiata”. In esso, si osserva come la ricerca di status passa attraverso ”consumi vistosi” (”conspicuous consumption”), il cui valore non è intrinseco ma dipende dalla possibilità di distinguersi dagli altri.
Man mano che l’economia cresce, le persone tendono sempre più a preferire questi cosiddetti ”beni Veblen” (status symbol) rispetto ad altri beni. Poiché questi beni non forniscono una soddisfazione intrinseca, non si raggiunge mai un “punto di sazietà”, ma si continua in una escalation.
All’interno di questo tipo di società c’è una costante invidia e frustrazione, sia per i “poveri” (chi non può permettersi questi beni), sia per i “ricchi” (che invidiano chi ha più di loro, e desiderano ulteriori “beni Veblen”). Quindi, mentre la ricchezza di un Paese cresce, il livello di felicità medio diminuisce.
Un circolo vizioso
All’aumentare della produzione, produttività e reddito vengono sempre più dissipati nel vano tentativo di distinguersi, attraverso “consumi vistosi” maggiori dei propri vicini. I “beni Veblen” escludono progressivamente tutti gli altri beni e attività che promuovono benessere (inclusi il tempo libero, le attività sociali e pubbliche).
Questo potrebbe spiegare il motivo per cui, negli ultimi decenni, tutti si sentono estremamente impegnati (”Non ho tempo!” è uno dei lamenti più diffusi — nonostante il progresso ci abbia liberati da molte incombenze), ma non per questo più appagati. Probabilmente le vite si riempiono progressivamente di “attività Veblen” (pensiamo a shopping e viaggi, o ai corsi cui si mandano i figli)… col solo risultato di aumentare stress e frustrazione.
A ben guardare, questa dinamica vale anche per i figli. Più viene concesso benessere ai giovani, e più questi — invece che risultarne appagati — sembrano ossessionati dai “beni Veblen” (cellulari, auto e abiti “giusti”…), a cui legano il senso del loro valore. Probabilmente ancora più degli adulti, a causa della loro minore maturità e maggiore dipendenza dall’approvazione dei loro pari.
Inoltre — osservano gli autori — più si tende all’acquisizione di status symbol, meno si ha tempo e disponibilità per aiutare gli altri. Questo danneggia il senso di fiducia e comunità (si frammentano le relazioni, gli individui si sentono isolati), a scapito della società intera.
Abbasso la miseria!
A questo punto, è importante ricordare che negare una cosa, non implica affermare il suo contrario! In altre parole, affermare che ”la ricchezza non dà la felicità” non vuol certo dire che la povertà renda felici. Anzi!
Quindi, né io né gli autori citati esaltiamo la miseria. Certamente la possibilità di soddisfare i propri bisogni fondamentali (cibo, riparo, sicurezza…) è fondamentale per sentirsi felici. Ma, una volta superato quel livello, diventa necessario chiarire i propri bisogni autentici. Anche perché siamo sottoposti a forti pressioni che ci inducono bisogni superflui (che, come abbiamo visto, non producono felicità).
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Leggi l’articolo completo sul blog Psicofelicità: ”Avere più soldi può renderti infelice?”
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